Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo

Questa frase scritta da Johann Wolfgang von Goethe (α 1749 Francoforte sul Meno – Ω 1832 Weimar) ne Le affinità elettive mi è tornata alla memoria mentre confrontavo alcuni dati per una ricerca di lavoro relativa alla produzione del Bitto, il noto formaggio valtellinese che, nella sua essenza originaria, rischia l’estinzione.FDA 2016.04.28 Schiavo 001Del poeta, scrittore e drammaturgo tedesco mi ha sempre colpito il fatto che applicasse le leggi della chimica e delle scienze naturali alle relazioni umane e, de Le affinità elettive, il fatto che turba e sgomenta ponendo mille interrogativi e non risolvendone alcuno. E ritengo sia questa la vera e profonda traccia che lascia in chi lo legge: una sorta di esortazione a non avvalersi di soluzioni precotte, a non affidarsi al sentito dire rimasticato, a santini, fervorini e luoghi comuni, ad improbabili guru e maestri.
Del medesimo Autore è infatti un altro aforisma, che dovrebbe farci pensare: “Qual è il miglior governo? Quello che ci insegna a governarci da soli.” Hai detto niente.
Ecco, se vogliamo percorrere la strada della consapevolezza, del risveglio, o addirittura dello sciamanesimo, dovremmo in primo luogo indossare scarpe adatte: scarponcini da trekking che ci riparino da freddo, umidità e infiltrazioni durante l’attraversamento di pozze, torrenti o passaggi innevati, sufficientemente traspiranti per proteggerci dal caldo eccessivo, robuste ma leggere e con la suola conformata in modo tale che non vi si inseriscano sassolini, rametti, foglie che possano far diminuire la presa causando rovinose scivolate.
Se gli scarponi ci servono per arrampicare, e non per mostrarli al rifugio dopo esservi arrivati con la seggiovia o con il suv, evitiamo le mode. Proviamolie a lungo prima di affrontare percorsi impegnativi: sapremo che sono i nostri quando riusciremo a sentirli non sentendoli, a dimenticarci che li stiamo indossando.
Per quanto mi riguarda sono sedici anni che, a scadenze più o meno regolari o semplicemente quando mi va di farlo, provo scarponcini più o meno celebrati, più o meno accattivanti, più o meno colorati, dichiarati iper qui e iper là. Ma alla fine mi tengo i miei vecchi Adidas grigi: esteticamente non sono certo più una meraviglia, ma la loro affidabilità è proverbiale anche su percorsi di una certa difficoltà. Finché reggono, non da ultimo anche grazie alla mia costante ed accurata manutenzione…
Li ho indossati persino in città allorché, dopo l’intervento chirurgico resosi necessario quando mi sono fracassato il tendine, avevo la necessità, più mentale che reale, di una base solida sulla quale camminare. Certo, era una mia credenza, in quel momento la mia coperta di Linus, ma lo sapevo, ne ero perfettamente consapevole.
Era il periodo in cui mi aveva preso l’irrazionale paura di cadere mentre scendevo le scale, ed avevo quindi deciso di scenderle al buio, con gli occhi chiusi. E ancora oggi certi giorni indosso deliberatamente scarpe tutte fighette ma la cui suola so essere scivolosa: sono io che decido se, dove e in quale modo camminare e quale passo tenere, assumendomene la conseguente responsabilità.
Certo, occorre coraggio, occorre sapere che la vita è senza rete e che te la puoi giocare scivolando banalmente su un escremento di cane abbandonato da un padrone incivile.
E adesso vi dico che cosa mi ha suscitato questi pensieri sparsi: il Pizzo Coca, la montagna più alta delle Alpi Orobie, che si erge a 3.050 metri sullo spartiacque tra Valle Seriana e Valtellina.
Digitando o, come si dice con orribile neologismo, googlando le chiavi di ricerca coca e pizzo provate a indovinare qual’è stato il primo risultato? Il Cartello di Medellin…

Alberto C. Steiner